Amor fati. Il destino come scelta

Amor fati. Il destino come scelta

Il fuoco vive nella morte dell'aria e l'aria nella morte del fuoco: l'acqua vive nella morte della terra, e la terra in quella dell'acqua

Eraclito

Tutto ebbe inizio con Eraclito e tutto trovò compimento in Nietzsche. Tra questi due alfa ed omega, il concetto di Amor Fati ha attraversato i secoli, adattandosi e trasformandosi nelle culture che lo hanno accolto, assumendo cosi, di volta in volta, volti differenti, pur mantenendo un nucleo costante: la relazione tra l'uomo ed il destino.

 

 

Nella Stoicismo, l'Amor Fati si manifesta come resilienza ed accettazione razionale degli eventi, ponendo l'autodisciplina come fondamento dell'armonia interiore. In Marco Aurelio, si traduce in serena adesione al corso della natura, un esercizio quotidiano di consapevolezza. Nel Cristianesimo, esso diventa abbandono fiducioso al disegno divino, accettazione devota della volontà di Dio. Nel Taoismo, assume la forma del wu wei, il non-agire inteso come il non-forzare, fluendo con l'ordine spontaneo del cosmo. In Spinoza, diventa amore intellettuale per l'ordine necessario della Natura, in cui libertà e destino si intrecciano come uno stesso principio. In Schopenhauer, l'accettazione del dolore del mondo prepara la trasvalutazione nietzschiana. In Heidegger, si riconosce nell'assunzione consapevole della propria Gettatezza, come apertura all'Essere. Il pensiero ermetico e l'Alchimia trasformano Amor Fati in un principio dinamico: attraverso il solve et coagula, la distruzione si fa preludio alla rinascita, ogni fine contiene in sé la matrice di un nuovo inizio. La Massoneria, accogliendo e rielaborando questa visione, riconosce nell'Amor Fati non solo l’accettazione della necessità, ma l'occasione di un perfezionamento interiore, l'opportunità di trasmutare il piombo dell'esperienza in oro spirituale, nell'orizzonte di un disegno cosmico di cui l'uomo è parte viva.
Tuttavia, tra questi due alfa ed omega non si pone soltanto uno iato temporale, ma una vera e propria biforcazione ermeneutica. L'Amor Fati eracliteo è un circolo ascendente, dove il ritorno su se stessi non è mai mera ripetizione, ma trasmutazione: è sempre un'elevazione ed un miglioramento. L'Amor Fati nietzschiano, invece, si svolge su un piano immanente, un continuum orizzontale in cui l'eterno ritorno non è scalata, ma eterno rimanere.
E proprio a partire da questa biforcazione ermeneutica che ha preso forma il mio interesse: durante i miei studi, analizzando numerosi testi e saggi, anche massonici, ho potuto constatare come la visione oggi più frequentemente evocata nella Massoneria contemporanea tenda ad assimilare l'Amor Fati alla visione nietzschiana, spesso incentrata sulla figura del superuomo e sull'idea di eterno ritorno. Eppure, nell'orizzonte massonico, l'Amor Fati non è un'accettazione passiva del destino né una condanna alla ripetizione, bensì un processo di crescita continua ed ascendente, in cui il perfezionamento individuale si riverbera nella comunità. Il massone non è mai davvero solo: la sua opera di levigazione interiore avviene in un contesto di fratellanza e la solitudine, lungi dall'essere isolamento, diviene il mezzo attraverso cui la pietra grezza si trasforma in pietra levigata, si trasforma nella propria pietra levigata, pronta ad integrarsi nell'Architettura Universale. Di tutto ciò non c'è riflesso in Nietzsche, al contrario, l'eterno ritorno si configura come una struttura ciclica ed immutabile, priva di evoluzione, in cui l'individuo è irrimediabilmente solo, confinato in un'esistenza che si ripete identica a se stessa. Per queste ragioni, al di là delle interpretazioni contemporanee, l'idea che ho maturato, attraverso analisi dei testi e le mie ricerche, è che l'Amor Fati massonico sia più affine alla visione eraclitea ed in particolare alla sua rielaborazione barocca che concepisce il divenire come un moto perpetuo di trasformazione, piuttosto che alla concezione nietzschiana dell'eterno ritorno.
L'immaginario iconografico, soprattutto quando filtrato attraverso la sensibilità dell'artista, si fa veicolo privilegiato di interpretazioni simbolico-esoteriche, offrendo una lettura più ampia e stratificata del pensiero filosofico. L'arte, infatti, non si limita ad illustrare concetti, ma spesso li anticipa, li modella e li diffonde, arricchendoli di sfumature ed aprendo nuove prospettive di comprensione. E in questo orizzonte che io voglio confrontare due opere d'arte "L'Allegoria della Divina Provvidenza" (1633-1639) di Pietro da Cartona e "Il Viandante sul Mare di Nebbia" (1818) di Caspar David Friedrich perché esse si rivelano non solo come espressioni estetiche, ma come autentici specchi dell'Amor Fati nelle sue due più profonde declinazioni.
Nel cuore pulsante del Barocco romano Pietro da Cortona plasma sulla volta del salone di Palazzo Barberini II Trionfo della Divina Provvidenza un'opera che non si limita a decorare, ma dischiude una visione, un'epifania pittorica che trascende la mera allegoria.
Il primo elemento esoterico che si impone non è narrativo, ma percettivo: è la nostra stessa attenzione. Vi è un istante, nell'osservare l'affresco, in cui lo sguardo cessa di rincorrere le singole figure, si sottrae all'analisi dei dettagli e smette di segmentare la composizione in parti distinte. Ed è proprio lì, in quell'abbandono, che si svela il segreto dell'opera. Ci accorgiamo che non stiamo più vedendo nel senso abituale, ma vivendo l'affresco, immersi in un vortice dorato che ci avvolge ci trascina in una danza cosmica. E in quel momento di resa percettiva che l'essenza dell'opera si manifesta: non come narrazione immanente, ma come un'architettura metafisica in cui il tempo si dissolve nell'eterno ed il fato si rivela non come un'implacabile sentenza, ma come un intreccio di forze, un canto, corale, che celebra la trasformazione perpetua.
In questa visione, l'Amor Fati non è accettazione passiva né condanna alla ripetizione ciclica, ma un atto di fusione con il divenire stesso, un'ascesi che si compie nel riconoscere il Destino come un principio di elevazione e metamorfosi. L'affresco, cosi, non si limita ad illustrare un concetto: lo incarna, facendosi specchio di un ordine superiore in cui ogni essere troνα Ια propria necessità all'interno di un'armonia più vasta, in un incessante processo di risoluzione e ricomposizione degli opposti.
L'intera composizione si avvolge in un moto vorticoso che trascina le figure verso l'alto, evocando una trasformazione incessante. Il Trionfo della Divina Provvidenza incarna cosi il principio alchemico del Solve et Coagula: la dissoluzione delle forme precedenti e la loro ricostituzione su un piano superiore. Ogni figura si inserisce in una narrazione più ampia, un movimento continuo che non prevede stagnazione, ma solo evoluzione: Nulla è statico, tutto è divenire.
Questo dinamismo trova eco nel pensiero di Eraclito: panta rhei, tutto scorre. Il divenire non è un eterno ritorno dell'identico, ma un'ascesa verso un'armonia più alta. L'affresco traduce questa tensione nel moto delle figure, che ascendono non in un ciclo chiuso, ma in una progressione che le conduce verso un ordine superiore…
L'Amor Fati qui espresso è un'accettazione attiva, non una resa: un affidarsi alla Provvidenza - al Destino come principio di crescita e perfezionamento. Non un'entità distante, ma una forza che guida e connette, unendo le figure in un intreccio di sguardi e gesti. Esse non obbediscono alla gravità: angeli ed allegorie si librano in uno spazio che è insieme architettura e sogno. Questo non è un mero artificio prospettico, ma una dichiarazione di poetica. Come scriveva Athanasius Kircher nell'opera dedicata alla filosofia naturale (1645) il mondo è un teatro di corrispondenze. E proprio grazie a queste corrispondenze le figure si sostengono a vicenda, danzando in un moto ascensionale collettivo.
La coralità è il cuore dell'esoterismo e della filosofia barocca: l'individuo non è mai solo nel suo percorso iniziatico, ma parte di un tutto organico ed interconnesso. Il destino non è un peso da portare in solitudine, ma un flusso che coinvolge ogni essere in una danza cosmica. Qui l'Amor Fati non è rassegnazione, ma arte della partecipazione.
In questo processo, il gioco di luci ed ombre diventa chiave iniziatica. Le zone più cupe (le cui cromie si sviluppano sulle gamme delle terre scure), dove Saturno con la falce incarna il tempo che tutto dissolve e le personificazioni dei fiumi segnano il dominio della materia. rappresentano la Nigredo: la crisi, la disgregazione dell'ordine terreno. Da questa oscurità si eleva la Albedo, simboleggiata dalle figure allegoriche che emergono dalla penombra e si orientano verso la luce: è il momento della purificazione, della conoscenza che inizia a schiudersi. Infine, l'apoteosi della Providenza inondante d'oro la scena suggella la Rubedo, la realizzazione dell’Opera, l'unione del molteplice nell'Uno, la fusione del visibile con il divino.
L'aquila, simbolo della volatilizzazione alchemica, domina la scena a sancire l'elevazione dello spirito, mentre l'architettura stessa sembra dissolversi nell'aria, trasformando il soffitto in un varco verso l'oltre, verso infinito. In questa tensione ascendente si compie il percorso iniziatico: dalla materia alla luce, dal caos all'armonia, dalla frammentazione all'unità.
Se nell'affresco barocco di Pietro da Cortona lo sguardo viene assorbito in un vortice di relazioni e connessioni cosmiche, nell'opera di Friedrich accade l'opposto: qui, la verità si impone in un solo colpo d'occhio. Non vi è dispersione né abbandono alla visione, ma una rivelazione istantanea, cristallina e definitiva. La scena si svela senza necessità di attraversamenti percettivi: una figura solitaria domina il paesaggio, il suo profilo stagliato in controluce contro l'immensità nebulosa. Il mondo non si apre attraverso un processo, ma si offre immediatamente come un'epifania senza mediazioni.
Non vi è alcuna coralità, alcuna progressione né ascensionale né collettiva: qui l'individuo è solo, separato dal tutto, una gettatezza heideggeriana all'interno di un universo che non accoglie, ma che si impone nella sua sconfinata alterità. Se l'affresco barocco dissolve le gerarchie tra le figure, fondendole in una danza cosmica, Friedrich le annulla del tutto, lasciando un unico protagonista davanti all'abisso dell'infinito. La sua posizione è assoluta. definitiva, senza un movimento che lo trascini altrove.
Nella visione nietzschiana dell'Amor Fati, l'accettazione del proprio destino non è un processo di miglioramento o di fusione con un ordine cosmico, ma un atto di pura volontà individuale. Il viandante non partecipa a una trasformazione alchemica, non si dissolve nel tutto: egli è immobile, fermo sulla soglia dell'eternità, condannato a guardare l'infinito senza mai oltrepassarlo. Ma egli non è un individuo nella sua particolarità: non ha un volto, non ha un'identità specifica. E l'uomo, è ogni uomo, sospeso tra la vertigine dell'infinito e il confronto con il nulla, con la mediocrità. Il Viandante incarna la sfida dell'eterno ritorno: non vi è progresso, solo l'accettazione assoluta del destino. Al contrario, le figure di Cortona non sono archetipi universali, ma individui distinti, ognuno con un ruolo preciso. Come nella Massoneria, l'armonia del tutto non annulla la singolarità: l'iniziato è parte della fratellanza, ma resta un'identità autonoma nel suo percorso di perfezionamento. Se il Barocco di Cortona accoglie la ciclicità della vita come una continua rinascita, come un continuo perfezionamento, Friedrich la imprigiona in una ripetizione sterile: il viandante è lì e sarà sempre lì, su quella scogliera interiore, a contemplare un destino che non evolve, ma ritorna eternamente identico a sé stesso, il miglioramento è solo personale, il miglioramento è solo l'annullamento della propria mediocrità.
Mentre in il Trionfo della Divina Provvidenza la luce è un'apoteosi che svela l'unità del molteplice, nel dipinto di Friedrich la luminosità non guida, non rivela, ma avvolge l'orizzonte in un'incertezza incolmabile, in una nebbia da atanór. Il viandante scruta la vastità dinanzi a sé, ma non vi è una direzione, né una risposta. La nebbia è la metafora dell'ignoto assoluto: non dissolve le forme in un'armonia superiore, ma le sospende in un vuoto liminale che non ammette risoluzione.
Dove l'affresco barocco celebra l'unità cosmica e il continuo trasformarsi dell'essere in una sintesi più alta, Il Viandante sul Mare di Nebbia mostra l'individuo isolato di fronte a un orizzonte che lo trascende, senza promessa di riscatto. E il culmine della solitudine esistenziale: non c'è fusione, non c'è ascesi, solo l'infinito che si ripresenta come un eterno ritorno, identico ed ineludibile.
In questa visione in cui l'Amor Fati non è prigione del tempo, ma danza dell'essere ed il destino non è mai separato dal divenire, la parola cede il passo al verso e il pensiero si fa invocazione. In questa visione la riflessione sul Fato non è più solo un discorso razionale, ma una forza che si incarna, che attraversa il corpo e l'anima ed in questo si trasforma in preghiera iniziatica, in fiamma poetica che attraversa l'ombra per fondersi con la luce. È qui che il discorso lascia spazio al rito, e la filosofia si tramuta in poesia: un linguaggio dell'anima, in cui ogni simbolo è un sigillo, ogni parola un gesto sacro, ogni immagine un frammento dell'Opera. Qui, il discorso si fa rito; la logica, simbolo: ogni immagine, frammento dell'Opera. E come l'oro alchemico nasce dalla trasmutazione dei metalli vili, così la poesia sorge dalla fusione degli opposti: luce e ombra, destino e libertà, fuoco e acqua.

Che il fuoco in me arda senza timore,
che le opposte vie si fondano,
che il mio destino sia l'incudine ed il martello,
che io ami la sorte, come Apollo ama Dioniso
nel gioco eterno di luce ed ombra.
Che io sorga come stella nel vortice del caos,
e che il mio passo incida il tempo come sigillo su cera.
Che il mio silenzio sia eco tra le colonne,
dove ogni scelta sia rito, ogni ostacolo iniziazione.
Che la solitudine non sia assenza,
ma via segreta della Fratellanza.
Che la mia pietra, levigata dal fuoco e dall'acqua,
ritrovi forma nell'Architettura Universale.
Che l'oro interiore, temprato dalla notte,
diventi lampada per chi cerca la via
Che ogni caduta sia scala.
e ogni ferita sia chiave.
Che il mio cuore resti aperto al gelo ed al sole,
e sia fucina dove gli opposti si abbracciano.
L'acqua che mi attraversa scorra libera,
non per fuggire, ma per incidere la mia pietra viva.
Che il silenzio parli in me,
che la tempesta si acquieti nei miei occhi,
che ogni respiro sia una danza con la notte,
e la notte accolga il giorno come l'amato ritorno.
Che il mio destino sia scritto in ogni stella cadente,
e che la luce del mio cammino non sia mai distolta
da ciò che è oscuro, ma lo riconosca come parte del Tutto.
Che io sia il fuoco che tutto avvolge,
e l'acqua che tutto trasforma,
che la terra sia la madre mia ed il cielo il padre mio,
che la fine sia un inizio che non teme il ciclo infinito, e che in ogni istante del mio vivere,
io riconosca il cammino che mi è dato,
che ogni passo, sia fuoco che mi trasforma,
che ogni passo, sia un cerchio che si rinnova.
Che io nel mio cammino, sia Fenice:
fuoco che sfida il vuoto,
e fiamma che da esso rinasce

T. B.

Delta on-line

Delta on-line, erede della storica pubblicazione, ha lo scopo di comunicare più agevolmente e ad un maggior numero di lettori articoli di cultura massonica.

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